Messa per Prato /3

Sui temi del lavoro
21-03-2015

Sorelle e fratelli carissimi,
anche noi “vogliamo vedere Gesù”, come “i greci” del brano del Vangelo di oggi, domenica di Quaresima che ci avvicina alla Pasqua del Signore. Anche noi, cercatori di Dio, nelle incertezze valoriali del nostro quotidiano, andiamo da chi può indicarci la via per quell’incontro che cambia la vita: l’incontro con il Signore Gesù.
Ed ecco il senso di questo nostro sostare insieme in preghiera per questa nostra amata città, i suoi abitanti, le famiglie, le istituzioni, la sua molteplice articolazione sociale.

E’ la terza “Messa per Prato”. Vi sono grato che abbiate accolto il mio invito, segno di una comune attenzione a quella dimensione spirituale che gli affanni della vita talvolta sembrano o compromettere o richiamare maggiormente.
Abbiamo appena ricordato nella annuale festa di S. Giuseppe la memorabile visita pastorale di S. Giovanni Paolo II con l’incontro dei lavoratori pratesi al Macrolotto; ed oggi ricordiamo la festa tradizionale di S. Benedetto, con la sua Regola di vita racchiusa nel motto conosciuto “ora et labora”; anche S. Francesco raccomandava ai suoi frati minori “la grazia del lavoro” e non tanto della questua, ammessa solo quando fosse impossibile il lavoro. Questi rapidi richiami ci danno le coordinate fondamentali per una riflessione sul lavoro oggi a Prato.

All’ingresso del campi di concentramento nazisti stava la famosa scritta “il lavoro rende liberi”. E’ una verità sacrosanta, divenuta in quel caso bestemmia sacrilega in bocca a quegli aguzzini che avevano fatto dell’annientamento delle persone lo scopo della loro attività. Papa Francesco non cessa di ricordare che “non avere lavoro toglie la dignità”.
Tocco questo tema del lavoro con grande riconoscenza personale ed ecclesiale a quanti con la loro attività ed il loro impegno nel tempo, hanno fatto grande questa nostra città, divenuta cosmopolita proprio a causa del lavoro. Non che tutto sia stato e sia “rose e fiori”; ma certamente il lavoro a Prato, bisogna riconoscerlo, è la caratteristica che meglio l’ha qualificata per molti decenni ed ha offerto possibilità di integrazione sociale a tanti immigrati italiani e non. Mi dicono che un noto industriale pratese, non molto praticante la Chiesa, incontrato poco prima della sua morte, in un colloquio confidenziale interrogato su come giudicasse la crisi attuale, abbia detto: “I miei dipendenti hanno lavorato per me e con me; mi hanno fatto ricco; farò di tutto fino all’ultimo perché non perdano il lavoro!”. Aveva compreso la funzione sociale della sua attività imprenditoriale. Infatti il lavoro è innanzitutto relazione. E solo una riscoperta della dimensione soggettiva e relazionale può fare la differenza tra una logica mercenaria e di sfruttamento ed una dimensione di pieno sviluppo della persona e della comunità a cui si appartiene anche attraverso il lavoro.

Dire “lavoro”, significa parlare anche di giustizia, di solidarietà, di contrattazione sociale, di innovazione e creatività, di categorie e associazioni di categoria, di sindacato, di cooperazione e società di vario tipo, di pastorale del lavoro, di famiglia e di immigrazione, di politiche artigianali, commerciali e industriali, di politica del credito, di formazione professionale, del rapporto tra scuola e lavoro e famiglia, di fiscalità del lavoro, di incentivi e detrazioni, di provvidenze e previdenze per i tempi floridi e per i tempi di crisi, di sussidiarietà tra pubblico e privato, di normative ambientali, di sicurezza sul lavoro, di libero mercato e programmazione, di equità fiscale e di incentivazione, di efficienza e di condivisione, ecc.
Ma oltre l’accenno ai diritti e ai doveri che tutti i soggetti dell’attività umana comunque organizzata devono tenere presenti, mi preme in questa breve meditazione richiamare due aspetti: il senso del lavoro e la sua importanza fondamentale per il singolo, la famiglia e la società; ed il “che fare” oggi in tempi di crisi per una prospettiva di speranza.

Naturalmente il Vescovo non è un politico, non è un sociologo, non è un sindacalista, non è un economista, né un manager di vario tipo. Ne sono ben consapevole; anche se il mio compito di Pastore non può non partire dalla realtà così come essa è. Come Vescovo che è chiamato dal Signore, il Divino Lavoratore, ad esprimere o richiamare non solo giudizi morali ma indicazioni di senso, voglio qui affermare, in piena sintonia con i miei predecessori – mons. Pietro Fiordelli e mons. Gastone Simoni – che la comunità ecclesiale di Prato guarda con interesse, simpatia, incoraggiamento, proposta, sostegno, apprensione e speranza tutto ciò che tocca questa dimensione fondamentale della vita dell’uomo: il lavoro a Prato. Nella cosiddetta “Italia diseguale” cresce la preoccupazione sul lavoro che scompare, sui giovani costretti ad emigrare, oppure a vegetare in attesa di una prospettiva di impiego meno precario e volatile, sulle fabbriche che chiudono.
Che tipo di società ci aspetta? E’ la domanda che ci facciamo con pensosa preoccupazione.
Ringrazio sentitamente l’Ufficio Pastorale Sociale e del Lavoro per il prezioso servizio che sta sostenendo, e non da ora, per esprimere la vicinanza e la sollecitudine della Chiesa ai lavoratori ed a tutte le categorie in cui si articola l’attività lavorativa a Prato. L’apporto imprescindibile della Dottrina sociale della Chiesa è prezioso per analizzare la situazione nostra e perseguire la giustizia sociale.
Così pure non voglio dimenticare il luminoso impegno delle parrocchie e della Caritas diocesana per affrontare i non pochi problemi di chi perde, con il lavoro, anche la speranza e talvolta la stessa dignità.

1. RISCOPRIAMO IL SENSO DEL LAVORO E DELL’ATTIVITA’ LAVORATIVA.
Che si tratti di lavoro pubblico o privato, di dipendenti o di dirigenti, nell’ambito dell’industria, dell’artigianato o del commercio, casalingo o delle professioni liberali, dalla grande visione della tradizione cristiana, monastica in particolare, che ha la sua radice nella Bibbia, dalla teologia delle realtà terrene e del lavoro, dal Magistero dei Papi, apprendiamo che “lavorare” significa cooperare con Dio creatore per la vita dell’uomo e per la custodia del creato. Lavorare è fare un vero atto di culto, quando vissuto nel rispetto dei mezzi e dei fini, nel primato della persona e nell’intento di servire al bene comune. S. Benedetto nella sua aurea Regola di vita che ha rappresentato un punto fermo della crescita dell’Europa, dice che bisogna “trattare gli arnesi del lavoro come i vasi sacri dell’altare!”. Dove c’è amore, passione, precisione, affidabilità, competenza, solidarietà, lì c’è un’azione liturgica, cioè un’azione sacra che rende culto a Dio creatore e redentore. E dove, al contrario, ci fosse trascuratezza, sarebbe segno di una deriva pericolosa. “Il disamore al lavoro – dice ancora S. Benedetto – è principio di inciviltà”.

Lo sappiamo: il lavoro è necessità di sopravvivenza personale e familiare; è condizione per il benessere e la pace sociale; è occasione per esprimere nella diversità dei ruoli e delle competenze la ricchezza dei doni di ciascuno; è fattore di integrazione sociale e di allargamento della cittadinanza; è prevenzione dell’emarginazione e ricerca per uscire insieme dalle difficoltà. E’ responsabilità davanti a Dio che ha affidato il creato alle mani operose dell’uomo (Pregh. Euc. IV). La Provvidenza “che governa il mondo” ci dato una testa per pensare e delle mani per lavorare.

Riscopriamo il lavoro come luogo teologico dove incontrare Dio. Solo una vera spiritualità del lavoro ci farà paladini sia del diritto “nel” lavoro che del diritto “al” lavoro, con tutte le conseguenze di coerenza tra Vangelo e vita che ci competono come cristiani discepoli missionari di Gesù.
Ma ricordiamocene, l’abbiamo fatto anche noi pratesi ed oggi ce ne lamentiamo con quanti venuti da lontano che ripetono i nostri stessi errori di ieri: quando il lavoro non mette al centro l’uomo, finisce per usare un linguaggio materialista e la persona diventa “materiale umano”.
Facciamo delle nostre organizzazioni sindacali e di categoria delle palestre di giustizia e di solidarietà, di partecipazione e di crescita culturale: soprattutto per noi cristiani questo è necessario per preparare lentamente ma durevolmente l’emancipazione del salariato, costruendo in ogni lavoratore la coscienza della propria dignità e del proprio compito verso l’azienda, la terra, gli uomini, la società e Dio.
L’economia ha le sue leggi, certo; ed occorre competenza e coscienza per entrarci in maniera adeguata; ma intanto che aspettiamo la giustizia dei grandi e delle istituzioni, queste bocche di disoccupati e sottoccupati le turiamo con l’aria fritta?
Tutti vedono come sia importante per considerare il lavoro nel contesto odierno, la politica monetaria, il mercato internazionale, la tassazione pesante che colpisce aziende, lavoratori ed operatori nei vari settori. Ma se ci decidessimo di produrre per l’uomo prima e più che per il profitto esclusivo; se sposassimo innovazione, ricerca e competenze; se avessimo impegno di formazione culturale della classe imprenditoriale, famosa per la sua volontà lavorativa diretta; (i “se” potrebbero aumentare!): le risorse condivise e non sprecate o privatizzate ci aiutano a superare disuguaglianze e ingiustizie. In questo caso a nessuno mancherebbe la possibilità di un lavoro, né il necessario per la vita quotidiana, né la possibilità di formarsi una famiglia, di alimentare una speranza davvero vivibile.
Di fronte ad un sistema tanto in affanno, è lecito giustificare con superficialità l’aumento enorme del “nero”, del “sommerso”, dei redditi anche loro “sommersi”? Così aumenta quell’arrangiarsi che degrada la dignità dell’uomo alla sopravvivenza e alla furbizia, aumentando quelle disuguaglianze e ingiustizie storiche che affliggono la società italiana (per non fare una descrizione dettagliata, basti pensare alle cosiddette pensioni-baby, o al sistema pensionistico retributivo rispetto a quello contributivo).
Insieme a molti mi domando se non sia doveroso riscoprire con urgenza il senso del sacrificio, il gusto della competenza seria e della creatività, la dimensione etica dei rapporti, la chiarezza dei fini dell’attività umana. In questo senso ritengo che anche la Chiesa, con il suo riferirsi al concetto di persona proprio della Rivelazione cristiana, che ci ricorda che la persona non è mai riducibile ad un ingranaggio strumentalizzabile dalla produttività o dalla pubblicità, abbia un aiuto da offrire, rispettoso e mai sostitutivo di altre competenze necessarie nei vari ambiti.

1. CHE FARE OGGI
Chi ha un lavoro certamente passa più tempo sul luogo di lavoro che con i propri cari. Oggi questa significatività del lavoro va declinata con modalità nuove rispetto al passato, perché siamo in un contesto nuovo di sfide enormi, che ci obbligano ad affacciarci in maniera inedita al grande mondo dove tanti soggetti sono protagonisti insieme ed anche diversamente da noi. I nostri giovani, con le loro naturali energie mentali e spirituali, devono ormai stabilire legami più vasti con il mondo intero, esplorando possibilità inedite non solo di mercato, ma di diversificazione e di cooperazione. Non possiamo solo cercare di mantenere quello che è stato, o di trasformarlo in ricchezza immobiliare, non produttiva di altro lavoro e quindi di possibilità di garantire opportunità al nostro territorio.
Non rassegniamoci alla crisi. Rimbocchiamoci le maniche, come abbiamo sempre fatto nella nostra storia, perché il lavoro non sia un ricordo e non sia soltanto una parentesi. Ora che ci dicono le esportazioni sono avvantaggiate, con prudenza e sensibilità, si creino nuove opportunità lavorative.
Che cosa consegniamo ai giovani pratesi? Il “tutto mi è dovuto, posso fare tutto”, tipico di un infantilismo della libertà, o il senso di responsabilità verso un territorio, in una appartenenza reale ad una comunità che sa certo aprirsi al mondo? Un vita facile non è sinonimo di vita riuscita; una esistenza in cui sacrifici e benefici si sostengono vicendevolmente, vince più agevolmente la conflittualità e la ghettizzazione.
Come comunità cristiana abbiamo un compito importante, necessario: testimoniare la fraternità ispirata al Vangelo in cui la condivisione delle risorse e la loro utilizzazione non consumistica ci aiuta a costruire progetti affidabili e percorribili. Nella grande continua trasformazione del lavoro è compito di tutti cercare di “non perdere per strada nessuno”. Accogliamo l’invito di Papa Francesco: “No all’economia dell’esclusione e dell’inequità! E’ un’economia che uccide”. La legge del più forte, del più furbo, del più scaltro nel cercare vantaggi illegali, dove il più forte mangia il più debole (antica legge della giungla, stigmatizzata già nelle favole di Esopo con la famosa storia del lupo e dell’agnello), riduce la persona a bene di consumo “usa e getta”, ad essere sfruttata ed oppressa, fino ad essere scartata, rifiutata, un avanzo inutile, inesistente socialmente, un fastidio.
Quanti disoccupati anche a Prato non sanno dove collocarsi nella scala sociale! Sovente la rendita si è preferita alla produzione e all’investimento. Chi continua a vivere di rendita, crea le premesse per l’impoverimento della città: chi vive bene e accumula per se stesso, distrugge il futuro di questa comunità, elimina il ruolo sociale dell’impresa e dei beni. L’investimento è futuro, la rendita è passato. “Investire significa valorizzazione del capitale sociale, investimenti in ricerca e formazione, sostegno ai consumi delle famiglie e dei soggetti sociali più deboli ed esposti, riduzione delle diseguaglianze e promozione di più giustizia, per evitare che si diventi un’area ingessata di privilegi e impossibilitata a fare valere il merito” (Past. Soc. PO, pp. 6-7). “Dove non c’è lavoro, manca la dignità. E questo…è la conseguenza di una scelta mondiale, di un sistema economico che porta a questa tragedia: un sistema economico che ha al centro un idolo, che si chiama denaro” (Papa Francesco).
Faccio un pressante invito a chi può e sa in questa nostra città: investire di più, affrontando le sfide necessarie, accogliendo il monito di Gesù che “è stolto accumulare solo per se stesso”.
Le tante ricerche sul nostro territorio hanno ormai descritto la crisi del tessile, con i suoi problemi strutturali, oltre che congiunturali. Ma non possiamo disperdere e lasciar distruggere la grande competenza pratese, senza pensare al mercato mondiale, non solo con atteggiamenti difensivi, ma soprattutto propositivi. Entriamo anche in relazione con la più grande comunità cinese d’Italia: valorizziamo la nostra relazione locale per veicolare i nostri prodotti.
Ma non dimentichiamo che abbiamo ancora altro da fare: la coltivazione di terreni incolti, lo sviluppo di forme di cooperative e associative nei servizi e nelle aziende, l’incontro intergenerazionale per trasmettere esperienze, saggezza e competenze di mestieri e saperi, incrementare il “Fondo S. Stefano” per sostenere il credito ad imprese specie piccole e medie, la riconversione di aree industriali dismesse, aprire nuove piccole attività in risposta ai nuovi bisogni. Ma come potremo camminare in questa direzione senza avviare nel contempo percorsi di formazione etica per imprenditori e professionisti, per sindacalisti e rappresentanti delle istituzioni? Percorsi educativi e formativi professionali nella scuola di alto livello, poiché anche di fronte a nuovi processi produttivi, rimane comunque l’uomo e occorre definire le funzioni delle macchine? Bisogna che riscopriamo la cultura del lavoro legandola a quella della vita, sperimentando la conciliazione tra lavoro e ambiti di vita, soprattutto con la famiglia e lo studio. Il Papa ci ricorda: “No a un denaro che governa invece che servire” (EG 56). Ma abbiamo sviluppato una riflessione sull’uso dei capitali e della proprietà privata?
Com’era saggio quel manovale a cui si domandava che cosa stesse facendo con la sua risposta fiera, consapevole che la sua piccola parte svolta con precisione e solerzia, era la parte di un tutto assunto come proprio: “Sto costruendo la cattedrale!”.
E, permettetemelo, non per difesa di parte, ma per servizio alla vita di tutti: riscopriamo la domenica come tempo di riposo, di relazioni, di ri-creazione, di preghiera. Coniugare tempi del lavoro e tempo della festa, è una esigenza di “igiene personale, familiare e sociale”. Talvolta si lavora troppo, come pazzi, senza più tempo per se stessi, nemmeno per la riflessione!
E da ultimo, ma non per ultimo, smettiamola di pensare ai soldi facili da accumulare con la finanza, senza la fatica del lavoro, come scorciatoia per egoismi e desideri meschini! La corruzione che danneggia la società, colpisce soprattutto i più deboli; non si tratta solo di non far sapere il male, ma soprattutto di non farlo, senza dimenticare che “legale” non equivale a “morale”!.

Di fronte alle tante sfide del momento, con convinzione desidero far mio il documento “Un’agenda di speranza per Prato” preparato dall’Ufficio Diocesano di Pastorale Sociale e del Lavoro, per avviare un dialogo ed un confronto con il sindacato, le associazioni di categoria, le istituzioni pubbliche, le forze culturali.

CONCLUSIONE
Cari amici, sorelle e fratelli, insieme pensiamo a Prato; insieme preghiamo per Prato; insieme convertiamoci alle vie di Dio nel mondo del lavoro; insieme accogliamo con discernimento evangelico le opportunità nascoste in questo tempo critico; insieme facciamo nostra la passione e la precarietà dei disoccupati come nostro primo prossimo.
Chiediamo l’intercessione di Maria di Nazareth, di S. Giuseppe lavoratore, di tanti uomini e donne caduti nell’adempimento dei loro compiti lavorativi (quante malattie professionali che talvolta conducono ad esiti letali!), ed insieme ora offriamo al Signore i frutti della terra e del nostro lavoro, perché nella potenza dello Spirito Santo divengano per noi e per la nostra amata Prato doni di salvezza.